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La Scultura |
[sommario] La grande statuaria a Taranto - La "Dea in trono" - Lo Zeus stilita di Ugento - Il sarcofago delle navi - Sculture tarantine in marmo, pietra e terracotta nelle collezioni dei musei stranieri |
Le fonti antiche attestano il gran numero di statue presenti a Taranto. Cicerone (Verrine, II, IV, 135), fra i capolavori della città, cita un Satiro collocato presso il tempio di Vesta, ed un gruppo bronzeo con Europa sul toro, realizzato da Pitagora di Reggio nella prima metà del V secolo a.C. Quest'ultima composizione è ricordata anche da Varrone (La lingua latina, V, 31) e Taziano (Orazione ai greci, 53), mentre diversi autori riferiscono delle opere che Lisippo di Sicione, uno dei più famosi scultori dell'antichità, fuse nel IV secolo a.C. Chiamato dai tarantini mentre si trovava nella città di Alizia, in Acarnaia, il celebre bronzista eseguì per la colonia lacedemone uno Zeus in assalto ed un Eracle seduto.
Nel 209 a.C. l’opera fu trasportata a Roma e collocata sul Campidoglio da Quinto Fabio Massimo (Strabone, VI, 278; Plutarco, Vita di Fabio Massimo, 22, 8), che la trafugò durante il sacco della città, punita perché schieratasi dalla parte di Cartagine dopo la sconfitta romana di Canne (seconda guerra punica). Trasferito da Costantino nel IV secolo d.C. nella nuova capitale imperiale di Costantinopoli, l’Eracle vi rimase fino agli inizi del XIII secolo, quando andò fuso in occasione dell'assedio della città, avvenuto ad opera dei crociati nel 1204. Lo storico bizantino Niceta Coniate, testimone oculare del saccheggio di Costantinopoli, ci riferisce della distruzione del colosso lisippeo; il bronzo così ottenuto servì per battere moneta (Niceta Coniate, Storia, Sulle statue di Costantinopoli, 5). Lo Zeus al contrario non lasciò mai Taranto a causa della sua intrasportabilità (Livio, Dalla fondazione della città, XXVII, 16, 8) e probabilmente andò fuso in concomitanza con l’avvento del Cristianesimo alla fine del mondo antico. Tuttavia il suo ricordo rimase vivo a lungo: secondo una leggenda diffusasi a Taranto nel IX-X secolo, la statua sarebbe rovinosamente crollata all'epoca del presunto passaggio in città di San Pietro. Le vicende legate alla storia del colosso raffigurante Eracle, con il suo trasferimento prima a Roma poi a Costantinopoli, hanno garantito all'opera una fortuna iconografica maggiore rispetto a quella toccata allo Zeus, che si è protratta fino in età moderna. Tanto è vero che il tipo è stato individuato con sufficiente chiarezza, grazie soprattutto ad alcuni bronzetti di età imperiale che seguono fedelmente il modello lisippeo proposto a Taranto (P. Moreno). A fabbriche alessandrine sono invece riconducibili due statuette, riproduzioni miniaturistiche del soggetto. Alte pochi centimetri, erano pertinenti in origine al coronamento di aghi crinali bronzei (spilloni per capelli).
L'attività di Lisippo a Taranto è stata datata negli anni intorno al 314-304 a.C. Tuttavia non si può escludere che sia da ricondurre alla sua mano anche il Satiro bronzeo ricordato da Cicerone, che P. Moreno colloca nel 330-320 a.C. In seguito ad una vittoria sui romani ottenuta da Pirro ad Eraclea, fu eretta a Taranto una statua in bronzo dorato raffigurante una Nike (vittoria) che si ergeva su un globo, quest'ultimo forse una aggiunta successiva. Il soggetto è stato riconosciuto da alcuni studiosi in una terracotta conservata nel Museo Nazionale di Taranto che forse ne riproduce lo schema iconografico. Trasportata da Augusto a Roma nel 29 a.C. (Cassio Dione, Storia romana, LI, 22), l'opera fu al centro nel IV secolo d.C. di una famosa disputa che vide contrapporsi il prefetto dell'Urbe Quinto Aurelio Simmaco a Sant'Ambrogio, vescovo di Milano, in merito alla sua rimozione insieme all'altare attiguo dall'edificio della Curia, sede del Senato. Un reperto di grande interesse proviene proprio dal Foro di Augusto a Roma, dove negli anni Trenta si rinvenne un piede destro in bronzo dorato, sollevato sulle dita, pertinente ad una statua di dimensioni maggiori del vero raffigurante una vittoria alata. Il piede poggia su un grosso tenone parallelepipedo; se questo fosse stato applicato entro un globo, potremmo trovarci di fronte proprio ad un frammento dell'originale portato via da Taranto (E. La Rocca). |
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Nel febbraio del 1912, scavi per la realizzazione di un fabbricato per civili abitazioni in Via Duca degli Abruzzi angolo Via Mazzini, all'altezza dell'attuale civico 71 (E. Langlotz), consentirono di realizzare una sensazionale scoperta archeologica: fu infatti rinvenuta una statua marmorea rappresentante una dea seduta su un trono riccamente decorato, databile nel periodo dello "stile severo" (460 a.C. circa).
L'identificazione della divinità rappresentata è resa difficile dalla mancanza degli attributi, tuttavia sono state avanzate in merito alcune ipotesi interpretative: si tratterebbe di Persefone o, come studi recenti (M. Mertens-Horn) sembrerebbero dimostrare, di Afrodite. A supporto di quest'ultima tesi vi sono diversi elementi, come l'espressione della bocca: il tipico "sorriso arcaico" che si scorge sul volto è un tratto caratteristico della scultura di VI secolo a.C. che nell'età dello stile severo diviene proprio solo di Afrodite, non a caso definita da Omero philomeidés "amante del sorriso". I capelli della dea sono raccolti in un copricapo a forma di cuffia, detto sakkos, che nell'antica Grecia era indossato dalle donne non ancora sposate. Tale indumento diviene attributo di Afrodite in qualità di protettrice delle giovani spose e del talamo nuziale. L'atteggiamento delle braccia, staccate dai braccioli, e lo spazio vuoto sopra le ginocchia hanno fatto inoltre supporre che la dea tenesse in grembo la raffigurazione di un fanciullo, appunto il piccolo Eros.
Diverse le ipotesi circa l'originaria ubicazione della statua di culto. Si è parlato del santuario di Saturo, o dell'area sacra che sorgeva in località Pizzone, dove sarebbe stata venerata come Persefone. Altra ipotesi la pone nel tempio dorico di Piazza Castello, erroneamente attribuito a Poseidone, ma probabilmente dedicato ad una divinità femminile, forse proprio alla dea degli inferi. Tuttavia, nel caso fosse confermata l'interpretazione come Afrodite, non è da escludere che la statua fosse in origine collocata poco distante dal luogo di rinvenimento, lungo l'attuale Via Principe Amedeo, da dove provengono altri reperti che rimandano al suo culto, tali da indurre ad ipotizzare la presenza in quella zona di un'area sacra a lei dedicata. La scultura, dal peso di circa dieci quintali, fu clandestinamente esportata e comparve sul mercato di Parigi nel 1914, presso la galleria dell'antiquario tedesco Jacob Hirsch. Sequestrata durante il primo conflitto mondiale in quanto di proprietà di un cittadino appartenente ad uno stato nemico, l'opera fu consegnata al termine della guerra ad un commerciante d'arte di Palermo, T. Virzì, che riuscì a dimostrare di esserne il legittimo proprietario.
Durante il corso degli anni l'opera è stata oggetto di numerose polemiche, sia circa il luogo di rinvenimento che in merito alla sua restituzione. Nel 1968 fu raccolta la testimonianza di un anziano contadino di Locri, il quale dichiarò che la "Dea seduta" ora a Berlino era stata scoperta nelle campagne della città calabrese, da dove poi avrebbe raggiunto la Puglia per essere clandestinamente venduta. Tale tesi non fu però suffragata da elementi probanti e così la scultura è comunemente indicata nella moderna letteratura scientifica come proveniente da Taranto. Diverse sono state le iniziative volte a ottenere la sua restituzione all'Italia, promosse sia da privati cittadini che da rappresentanti delle istituzioni. Negli anni Novanta la "Dea in trono" sarebbe dovuta temporaneamente tornare nel nostro Paese per essere esposta a Venezia in occasione della grande mostra "I Greci in Occidente", allestita presso Palazzo Grassi, ma le autorità del museo berlinese (proprietario dell'opera dal 1915) hanno negato il trasferimento della scultura a causa della sua particolare fragilità. Dal 2016 una copia in resina della statua, perfettamente fedele all'originale poiché ottenuta con la tecnica del laser scanner, è inserita nel percorso espositivo del Museo Archeologico Nazionale di Taranto. |
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Celebre bronzo arcaico rinvenuto il 22 dicembre 1961 a Ugento (Lecce) in territorio messapico, e conservato presso il Museo Archeologico Nazionale di Taranto.
La statua era priva dei piedi e della mano sinistra, poi ritrovati in seguito, e degli attributi; ciò rese problematica l'individuazione della divinità rappresentata. Interpretato in un primo momento come Poseidon, oggi si è comunemente orientati nel riconoscervi Zeus Kataibàtes (fulminatore), saettante nella destra e con aquila nella mano sinistra, dove sono ancora visibili gli artigli dell'animale. La precedente attribuzione ebbe origine proprio sulla base di una differente lettura di quei resti, considerati dapprima come pertinenti ad una coda di pesce; in tal caso la divinità avrebbe impugnato il tridente in luogo del fulmine. Lo Zeus ugentino fu realizzato con la tecnica della "cera persa"; piedi, mani e testa furono lavorati a parte e saldati successivamente. Il volto del dio, dalla possente struttura quadrata, presenta appena accennato il caratteristico "sorriso arcaico", mentre estremamente elaborata appare la capigliatura, divisa in lunghe ciocche che ricadono, trattenute da un nastro, sulle spalle. Gli occhi sono ottenuti incastrando nelle cavità orbitali elementi in bronzo in forma di cassetta (si conserva quella dell'occhio sinistro), presumibilmente completati in superficie con avori e paste vitree per la resa del bulbo e della pupilla. La fronte è cinta da una corona di foglie di alloro e da un diadema.
I fori realizzati lungo i bordi della parte superiore del capitello erano funzionali all'inserimento di chiodi in legno, utili per la sospensione di bende votive. Proprio la presenza di tracce di piombo all'interno di alcuni di essi ha fatto avanzare l'ipotesi che il grappolo d'uva in peltro rinvenuto insieme alla statua facesse parte di una serie di ornamenti metallici applicati all'elemento architettonico in modo da simulare offerte votive poste alla base dell'immagine del dio (N. Degrassi). Tuttavia le dimensioni del reperto, corrispondenti in proporzione a quelli della statua, non hanno mancato di suscitare interpretazioni differenti. Secondo F. G. Lo Porto il grappolo potrebbe essere un attributo aggiunto in età romana alla scultura, allo scopo di trasformarla in Dioniso-Bacco. Concepito per una visione obliqua e collocato in origine su una colonna all'interno di un recinto sacro, lo Zeus di Ugento è con tutta probabilità un oggetto d'arte realizzato a Taranto: in esso infatti confluisco componenti artistiche differenti che caratterizzano l'eclettismo dell'arte tarantina arcaica. In particolare, si leggono influssi corinzi nell'anatomia del busto, con l'arcata epigastrica resa in forma poco pronunciata; modi laconici sono invece nel disegno del volto, mentre elementi ionici si riscontrano nella finezza dei particolari decorativi. I riccioli a forma di chiocciola della fronte ritornano simili su una bella testa in terracotta del Museo di Taranto, molto simile nell'impostazione a quella dell'esemplare bronzeo, tanto da esserne considerata quasi un modello (M. C. Parra).
Il diadema del dio è ornato da rosette simili a quelle scolpite sull'abaco del capitello dorico in pietra di Corigliano scoperto insieme alla statua. E' questo un motivo decorativo tipicamente messapico, che ne attesta l'esecuzione in loco ed ha fatto anche supporre che il bronzo sia stato realizzato in ambiente indigeno. Tuttavia, proprio l'analisi stilistica spinge a ritenerla un'opera prodotta a Taranto, forse su commissione dell'aristocrazia ugentina per un proprio santuario. Diverse le ipotesi circa il momento in cui la statua, alta circa 75 cm, venne sotterrata. Ciò può essere accaduto sia nella tarda antichità, come negazione di un simbolo pagano, sia negli anni della occupazione romana, per preservarlo dalle razzie dei conquistatori. Non è però da escludere che lo Zeus sia stato nascosto nel V sec. a.C., durante le note vicende belliche che videro impegnati i messapi contro i greci di Taranto. |
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Nell’ottobre del 1879, in Via di Mezzo angolo Vico Madonna della Pace (città vecchia di Taranto) si rinvenne un gruppo di reperti scultorei in marmo, dei quali furono recuperati solo i frammenti di dimensioni maggiori mentre la parte restante fu lasciata nel luogo di scoperta.
Il confronto con altri sarcofagi aventi il medesimo tema figurativo ha reso possibile la ricostruzione del monumento, che di recente è stato sottoposto ad un intervento di restauro e pulitura grazie al quale ha acquisito piena leggibilità. Sebbene ridotta in frammenti, ci troviamo di fronte ad un’opera eccezionale, sia per le dimensioni monumentali che per la qualità dell’apparato decorativo, attribuito ad un grande maestro noto col nome convenzionale di Maestro della battaglia delle navi. Alla sua attività sono stati ricondotti altri sarcofagi, sempre frammentari, conservati a Venezia, Istanbul, Atene. In particolare, quello di Venezia ripropone lo stesso schema narrativo dell’esemplare tarantino, con la raffigurazione del combattimento fra greci e troiani presso le navi (Illiade, lib. XV e XVI). I troiani, guidati da Ettore e forti dell’assenza di Achille, ritiratosi dalla guerra insieme a Patroclo perché costretto da Agamennone a cedergli la sua preda di guerra Briseide, vogliono incendiare le navi dove i greci si erano rifugiati dopo l’assalto al loro campo. Il combattimento porterà alla morte di Patroclo, nel frattempo ritornato in guerra sotto le spoglie di Achille.
La parte superiore della cassa è caratterizzata da una serie di riquadri, contenenti un raffinato motivo floreale oppure un meandro; sotto questi vi è una fascia a decorazione vegetale (kymation lesbio) e una decorata da ovuli e lancette (kymation ionico). Agli angoli, due figure di cariatidi, ad imitazione di quelle spesso realmente presenti sui montanti delle klinai. Accanto alla testa della cariatide di sinistra è visibile la mano di un guerriero ritratta nell’atto di scagliare un sasso. Sul frammento posto nel lato corto è raffigurato un guerriero greco di spalle che volge il capo verso un troiano; sullo sfondo vi è un cavaliere dalla fluente capigliatura che impugna una lancia. Sul lato lungo, nella metà a sinistra, vi è il perno della composizione: tre prue di navi, finemente decorate, sulle quali sono visibili tre guerrieri greci in armi; sotto è il corpo di un troiano riverso su uno scudo.
Il coperchio del sarcofago è costituito dalla raffigurazione del defunto steso su kline. Il marmo utilizzato è di provenienza egea, a differenza di quello usato per la cassa, che è marmo pentelico; ciò ha fatto supporre che il reperto in esame non fosse pertinente in origine al sarcofago. Tuttavia sia i caratteri stilistici che l’ubicazione del rinvenimento, nel medesimo luogo dove sono stati ritrovati i frammenti della cassa, sembrerebbero confutare tale ipotesi. Il sarcofago delle navi è stato datato al 180-190 d.C. La sua scoperta occasionale e decontestualizzata in città vecchia, luogo che ospitava l’acropoli e dove quindi non vi erano tombe di età greco-romana, pone diversi interrogativi circa la committenza originaria dell’opera. Se questa fosse relativa ad un personaggio locale, dimostrerebbe come a Taranto ancora alla fine del II sec. d.C. vi fosse una borghesia di alto livello, capace di commissionare monumenti di grande impegno realizzativo. Tuttavia la vicinanza del luogo di rinvenimento dei frammenti allo scalo portuale non consente di escludere l'ipotesi che il sarcofago sia giunto a Taranto in una età successiva, già ridotto in frammenti, come zavorra di una nave commerciale sulla rotta verso occidente. |
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Sculture tarantine in marmo, pietra e terracotta nelle collezioni dei musei stranieri
Nel corso degli anni la critica si è espressa ora favorevolmente, ora contro l’esistenza di una produzione marmorea arcaica. Tuttavia, proprio il confronto fra i reperti scultorei in marmo di sicura provenienza tarantina e le coeve realizzazioni locali in pietra o in terracotta, che presentano caratteri peculiari, autorizza a ritenere la città sede già in età arcaica di una delle scuole artistiche regionali greche, che rielabora in modo autonomo i modelli della madrepatria ed è quindi pienamente partecipe agli orientamenti e alle evoluzioni del gusto della scultura del periodo. I principali musei internazionali offrono notevoli esempi di opere indicate come provenienti da Taranto, realizzate nelle diverse classi di materiali. Fra le più antiche si annoverano le statue esposte a Berlino: una piccola Kore in marmo, alta trentacinque centimetri, rinvenuta lungo la costa di Satùro (fine del VI secolo a.C.), oltre alla ben nota “Dea in trono”, capolavoro della plastica magnogreca (vedi articolo in questa pagina).
Con il IV secolo la scultura tarantina assume caratteri di più spiccata originalità, sebbene risenta, come tutta la plastica greca del periodo, dell’influsso delle coeve produzioni attiche. Caratteristiche comuni sono i volti pieni, le labbra carnose, le palpebre marcate, le fronti che, incorniciate dai capelli, assumono sovente un disegno triangolare. Sui colli si nota spesso la presenza in forma accentuata dei cosiddetti “anelli di Venere”, resi tramite segni obliqui o cerchi concentrici: un “inestetismo” simbolo all’epoca di buona salute e di ricchezza. Lo si ritrova, particolarmente evidente, in un bel ritratto femminile velato esposto al Nelson-Atkins Museum di Kansas City (metà del IV secolo a.C.). In generale, si riscontra nella scultura tarantina una certa predilezione per la visione d’insieme piuttosto che per la resa dei singoli dettagli (R. Belli Pasqua). Un rilievo in marmo di provenienza sconosciuta, esposto al British Museum, riporta la dedica: “Aesculapio tarentino Salenius Arcas”. Si tratta di una iscrizione moderna presumibilmente apposta dallo scopritore del reperto, che nulla c’entra con la scena funeraria rappresentata sulla lastra (cm 83 x 56); tuttavia la sua presenza, unitamente a considerazioni di carattere stilistico, hanno suggerito di ricondurre, almeno ipoteticamente, l’opera all’arte tarantina. L'esemplare londinese, datato alla prima metà del IV secolo a.C., mostra due uomini stesi su una kline (letto); quello a destra, più anziano, porge la mano sulla spalla del giovane a sinistra, il quale a sua volta allunga il braccio verso una trapeza (tavolo) posta davanti al letto. A destra della scena un servo regge dei recipienti; mentre a sinistra un efebo conduce a piedi un cavallo retto per le briglie. L’associazione di quest’ultima figura di cavaliere, sebbene sia attestata anche in altri rilievi, esula dall’iconografia classica del “banchetto eroico”, e può essere interpretata come la rappresentazione di un adorante al cospetto dei due personaggi distesi sulla kline (Thönges-Stringaris), oppure come ad un generico riferimento al mondo aristocratico di appartenenza (A. Comella).
Accenti di vivace realismo sono in una straordinaria testa di cavallo marmorea, capolavoro esposto al British Museum e datato alla seconda metà del IV secolo a.C. La presenza di alcuni fori visibili all’attaccatura superiore del collo, dietro le orecchie e sotto il mento, indica che la scultura doveva essere completata in origine con degli elementi in bronzo utili a rendere la bardatura dell’animale. Pertinente forse ad un gruppo raffigurante i Dioscuri a cavallo, è ipotizzabile che la testa londinese fosse relativa alla bestia posta a sinistra, come sembrerebbe suggerire il maggior risalto dato al suo lato destro (P. Wuilleumier). Differenti interpretazioni riconducono il reperto ad una statua funeraria equestre, realizzata per qualche tempietto (naiskos) eretto a segnacolo sopra una tomba. Proprio a queste strutture che costellavano la necropoli di Taranto si riferiscono i tanti frammenti architettonici confluiti nelle collezioni dei più importanti musei internazionali. Si tratta di capitelli, metope, fregi, basi di colonne, acroteri e decorazioni di timpani frontonali realizzati in pietra tenera nelle fiorenti botteghe della città. Uno dei capolavori di questa classe di reperti è costituito da un rilievo esposto al Metropolitan Museum of Art di New York. Davanti ad un altare, visibile a sinistra, una donna vestita con un lungo chitone ed un guerriero nudo ma con una clamide (mantello) annodata sul petto e sulle cui spalle pende un elmo, sono ritratti in atteggiamento di profonda mestizia. Sullo sfondo, appesi in alto alle pareti, sono visibili un elmo, delle bende, una corazza ed una spada; mentre in basso, fra i due giovani, compare una lekythos, vaso funerario utilizzato nelle libagioni rituali che si svolgevano presso le sepolture. I due personaggi sono stati interpretati come Oreste ed Elettra davanti alla tomba di Agamennone (ultimo quarto del IV secolo a.C.), scena desunta dal teatro tragico greco.
La plastica tarantina si esprime compiutamente anche nell’uso della terracotta: “la più bella testa di Taranto della prima metà del IV secolo” è per C. Rolley il ben noto ritratto femminile fittile con diadema fra i capelli, icona del museo cittadino. E’ proprio dall’impiego di tale materiale, l’argilla, che derivano quelle caratteristiche originali della scultura locale in marmo, come i volti resi in forma piena e morbida, o la trattazione piatta delle pieghe delle vesti. Uno “stile coroplastico” che secondo R. R. Holloway ricorrerebbe in tutta la produzione magno-greca. Un eccezionale gruppo di sculture in terracotta quasi a grandezza naturale, indicato come proveniente da Taranto, fu acquistato negli anni settanta dal Getty Museum di Malibu (Los Angeles). Un uomo è seduto fra due sirene stanti, creature rappresentate nella mitologia classica come esseri metà donna e metà uccello. La valenza funeraria del gruppo è confermata proprio dalla presenza di queste figure fantastiche, che attiravano con il loro canto i marinai verso la morte, ispirando l'anima dei defunti in direzione delle entità celesti (Plutarco, Questioni conviviali, IX, 14, 6, 745 d-f). Sprovviste di ali, ma dotate di una grossa coda semicircolare, le sirene hanno forma animale solo nella parte inferiore del corpo, secondo l’immagine che si diffonde in età ellenistica per queste creature, in precedenza rese come uccelli con testa femminile.
P.G. Guzzo in un interessante articolo propone una suggestiva chiave di lettura del gruppo fittile di Malibu, per il quale il Ministero per i Beni e le Attività Culturali ha avanzato richiesta di restituzione all’Italia. Il diverso atteggiamento delle sirene ritratte accanto ad Orfeo, quieto in quella di sinistra, più agitato in quella a destra, ha suggerito allo studioso che la raffigurazione possa far riferimento al ruolo della musica come elemento ordinatore delle caotiche forze naturali, rappresentate dalle due creature ferine. Si tratta di un tema caro alla filosofia pitagorica, che rimanda quindi ad Archita ed alla sua scuola, e può essere ipoteticamente interpretato anche come allusivo all’azione politica del grande stratego tarantino. Infatti, le fonti ricordano che, in anni di forti contrasti interni, egli seppe garantire con le sue riforme ordine ed equità sociale (Giovanni Stobeo, Florilegi, IV 1, 139).
Fra le produzioni tarantine in terracotta, notevoli ancora alcune teste conservate sempre al Getty Museum, e, soprattutto, un ritratto giovanile esposto all’Altes Museum di Berlino, "una delle opere più grandi e vive della coroplastica ellenica" secondo P. Wuilleumier. Pure nella capitale tedesca è una scultura in pietra raffigurante un giovane servitore, originale per l’impostazione realistica dell’espressione del volto (IV-III secolo a.C.). Quest’ultimo reperto faceva parte di un gruppo decorante un naiskos. Con la prima età ellenistica persistono nella plastica tarantina i caratteri peculiari già evidenziati per le fasi precedenti. Elementi di novità sono il gusto per le figure slanciate, l’enfasi nei movimenti, l’eleganza nella ricerca dei particolari decorativi ed una accentuata tendenza al verismo. Si tratta di caratteristiche che si ritrovano anche in altri centri del Mediterraneo, ma che a Taranto sono adottate piuttosto precocemente, tanto da spingere gli studiosi a considerare la pólis laconica come l’originale centro di diffusione di alcuni di questi modelli. In tal senso, è diffusa l’opinione che Taranto abbia influenzato, almeno nelle prime fasi dell’ellenismo, anche le produzioni di Alessandria d’Egitto. Quello con la capitale tolemaica sarà un rapporto reciproco, che col tempo invertirà la sua linea direttrice (A. Adriani).
Nelle collezioni dei musei stranieri non mancano importanti reperti scultorei provenienti da Taranto e probabilmente realizzati in loco che si datano ad età imperiale, tuttavia essi non si discostano dalle coeve linee guida della plastica romana. Si ritiene che gli ultimi indizi di una produzione tarantina si possano far risalire alla fine del II - inizi del III secolo d.C. (R. Belli Pasqua). Fra tutti, si segnalano i ritratti di età giulio-claudia a Ginevra e Copenhagen, e l’ara votiva, rinvenuta davanti alla Chiesa di Sant’Agostino, conservata sempre nel Museo Nazionale della capitale danese. |
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