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La Storia |
[sommario] La fondazione della città tra mito e realtà storica - Le guerre di Taranto greca - Le istituzioni politiche di Taranto greca - Organizzazione militare e tecniche di combattimento nella Taranto greca |
La fondazione della città tra mito e realtà storica Nel corso dell’VIII secolo a.C. le coste dell’Italia meridionale furono interessate da un ampio fenomeno migratorio, che ebbe origine dalle regioni della Grecia continentale e dalle isole del Mar Egeo. La fondazione di Taranto, unica esperienza coloniale spartana in occidente, si inserisce in tale quadro, rivestendo molteplici motivi di interesse, legati nello specifico ad alcune vessate questioni di carattere storico-archeologico.
Il protrarsi delle ostilità, il lungo assedio spartano sotto le mura di Messene, provocò a circa dieci anni dallo scoppio della guerra una vera e propria crisi demografica a Sparta. Tale difficile situazione fu risolta grazie ad una ambasceria al fronte delle anziane donne spartane, mediante l’invio nella città lacedemone di cinquanta giovani. Questi erano svincolati dal solenne giuramento prestato all’inizio della guerra di rientrare in patria solo dopo la conquista di Messene, in quanto all’epoca dei fatti ancora adolescenti. Tali notizie sono tramandate da Strabone (I a.C.), che cita Eforo di Cuma Eolide, vissuto nel IV secolo a.C. (Strabone VI, 3, 3). Il geografo riporta anche un’altra versione dei fatti, attribuita ad Antioco di Siracusa (V secolo a.C.), secondo il quale i responsabili delle unioni intime a scopo di ripopolamento furono i cittadini spartani che si erano rifiutati di partecipare alla spedizione militare, motivo per il quale erano stati ridotti ad iloti.
Trascorsi circa vent’anni dalla fine della guerra, i Parteni decisero di congiurare contro lo Stato. A capo della rivolta fu posto Fàlanto, figlio di Arato, il nobile spartano che si era fatto promotore dell’invio in patria dei giovani guerrieri per il ripopolamento della città. L’attacco venne programmato in occasione delle feste di Apollo Giacinto ad Amicle, una delle cinque obài (villaggi) in cui era divisa la popolazione di Sparta; Fàlanto aveva il compito di darne il segnale di inizio, coprendosi il capo con un berretto laconico. Tuttavia la congiura fu scoperta ed un araldo gli impedì di compiere il gesto. I nobili spartani furono però clementi con i Parteni: Fàlanto, prospettata la possibilità di fondare una nuova città, fu invitato a consultare l’oracolo di Delfi, come era usanza nel mondo greco prima di intraprendere qualsiasi impresa importante. Il responso fu favorevole poiché la Pizia (sacerdotessa) gli assegnò da abitare “Satyrion e la fertile terra di Taranto”, diventando il flagello delle popolazioni locali. Egli fu inoltre posto a capo della spedizione coloniale, salpata secondo Giustino (Epitome da Pompeo Trogo, III, 4) senza che i Parteni rivolgessero nemmeno un saluto alle proprie madri, considerate causa della loro discriminazione avendo accettato unioni sessuali non regolamentate da un gámos (matrimonio).
Sempre in merito al viaggio dei Parteni, Pausania (X 10, 6-8) ci informa di un responso oracolare secondo il quale Fàlanto avrebbe conquistato una città solo quando avesse visto piovere dal cielo sereno, profezia che si avverò appena la moglie Ethra (appunto “cielo sereno”), preoccupata per le sorti del marito, gli bagnò con le lacrime il capo che aveva posto sulle ginocchia. Il periegeta (X, 13, 10) riferisce anche un episodio accaduto all'ecista tarantino prima di giungere in Italia, secondo il quale Fàlanto, coinvolto in un naufragio nel mare criseo, avrebbe guadagnato la riva cavalcando un delfino. E' un aneddoto che richiama il mito di Taras, l'eroe figlio di Poseidone e sposo di Satyria figlia di Minosse (Probo, ad Georg., II, 197), che ha dato il nome all'abitato indigeno pre-greco, dove vi sarebbe giunto, appunto, in groppa ad un delfino. Non si può escludere, quindi, che Pausania, nella descrizione del secondo donario offerto dai Tarantini a Delfi (vedi "Le guerre di Taranto greca" in questa pagina), abbia confuso i due personaggi. Tuttavia, un testo del lirico Alceo (F 7, 11 Liberman), poeta vissuto a cavallo fra il VII ed il VI secolo a.C., sembrerebbe confermare la versione del periegeta, attribuendo a Fàlanto l'episodio mitico del naufragio e del relativo salvataggio. Nel frammento papiraceo (P. Oxy. 1789 fr. 6 e fr. 40), del I secolo d.C., si legge infatti il nome dell'ecista tarantino, riconoscibile grazie alla presenza della sua sillaba iniziale.
Secondo le fonti, Fàlanto fu successivamente esiliato dalla città. Rifugiatosi a Brindisi, ingannò gli indigeni: mentendo su un oracolo fece credere loro che avrebbero riconquistato Taranto una volta sparse nell’Agorà cittadina le sue ceneri. In realtà l’oracolo prescriveva esattamente il contrario, garantendo in tal modo ai coloni spartani il dominio del luogo e del territorio circostante per sempre (Giustino, Epitome da Pompeo Trogo, III, 4). Il dibattito storiografico degli ultimi anni ha concentrato la sua attenzione sull’origine dei Parteni e sulla figura del loro ecista Fàlanto. Nella tradizione dei racconti sulla nascita delle città greche è sempre presente la figura del fondatore, spesso mitica; tuttavia per le póleis occidentali è probabile che si tratti di personaggi realmente esistiti. La cosiddetta “questione morale” delle Parthénoi, madri dei parteni, riportata negativamente dalle fonti antiche filoateniesi e romane, successive di secoli agli episodi narrati, non era considerata come una origine infamante all’epoca della fondazione della città. A dimostrazione di ciò il fatto che tali avvenimenti entrano nella storiografia ufficiale della pólis, tanto più che il mito sulla fondazione di Locri Epizefirii (fine VIII sec. a.C.), che assegna la ktísis della città ai figli illegittimi nati durante l’assenza dei guerrieri locresi impegnati al fianco degli spartani nella prima guerra messenica, dimostra una palese volontà di assimilazione al racconto sulla fondazione di Taranto (R. Van Compernolle). L’organizzazione delle spedizioni coloniali muoveva spesso dall’esigenza di espellere dalla città elementi marginali ad essa perché discriminati per motivi politici o sociali. In tal modo si preservava l’ordine dello Stato da possibili azioni rivendicatrici.
Il gesto che la tradizione gli assegna come segnale di inizio della rivolta soffocata sul nascere può essere interpretato in chiave simbolica. Phálanthos in greco significa “calvo sulla fronte”; coprendosi la testa con il berretto, egli annulla le differenze con gli Spartiati che, come ricorda Antioco (Antioco ap. Strabone VI, 3, 2) “si riconoscevano dalla folta capigliatura”. Altra questione dibattuta è il luogo di primo stanziamento dei coloni. Le fonti sembrerebbero indicare la priorità di Satùro, località sulla costa a circa 10 km dalla città; solo in un secondo momento i coloni si sarebbero spostati sul sito dell’attuale Taranto. Si tratterebbe quindi di un “doppio insediamento”, similmente a quanto documentato in Magna Grecia da altri casi noti (Locri e Pithecusa-Cuma). Tuttavia, allo stato attuale delle ricerche ciò non può essere affermato con certezza in quanto i due siti hanno restituito materiali archeologici coevi. Occorre però sottolineare che frammenti di ceramica laconica tardo-geometrica (VIII sec.a.C.), portati presumibilmente dai primi colonizzatori, sono noti al momento solo da Taranto e Satùro, e che quest’ultima località è sulla rotta seguita dai greci verso Taranto. Altra versione, basata su una testimonianza di Diodoro Siculo (VIII, 21), indicherebbe in Satyrion il nome pre-greco di Taranto, trasformato in Taras dai coloni laconici.
Ancora sul significato generale della colonizzazione greca in occidente si è soffermata per ultima l'attenzione degli studiosi di scuola inglese, i quali considerano, in polemica con parte della critica, l'origine delle città italiote frutto dell'iniziativa di singoli gruppi privati e non di spedizioni organizzate in forma pubblica dalle città di provenienza. |
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La fondazione di Taranto, avvenuta nel 706 a.C. ad opera dei Parteni esuli da Sparta, non fu pacifica ma avvenne a scapito di più insediamenti indigeni, sparsi sul territorio. I rinvenimenti di ceramica japigia effettuati a più riprese e in differenti località, anche in anni recenti (convento di San Domenico, Seminario, San Martino), ne sono una prova archeologica. In particolare si segnala la scoperta di un gruppo di vasi integri rinvenuti a fine ottocento in un deposito nei pressi della Chiesa del Carmine (noto come pozzo "D'Eredità" o "Borgo Nuovo"), contenente ceramiche relative alle tre fasi del geometrico japigio. Tale rinvenimento è stato interpretato come il risultato di un intervento di "purificazione" effettuato dai coloni spartani, con lo svuotamento delle tombe ed il sotterramento nel pozzo delle ceramiche, forse pertinenti a corredi funerari.
I conflitti avvenuti nel V sec. a.C. sono meglio conosciuti. Intorno al 480-470 Taranto ottenne due vittorie sui Messapi e sui Peucezi, celebrate a Delfi con splendidi donari: uno opera di Agelada di Argo era composto dalle figure bronzee di quattro donne e sedici cavalli, prede di guerra; l'altro, opera di Onata di Egina e Kalynthos, rappresentava l'eroe eponimo Taras, Fàlanto (il capo della spedizione coloniale dei Parteni) e il delfino che incombevano sul re iapigio Opis caduto in battaglia (Pausania, X, 10, 6; 13, 10). Per entrambe le strutture restano avanzi del basamento e frammenti dell'iscrizione dedicatoria. Il primo donario era collocato all'inizio della Via Sacra, mentre il secondo sorgeva al centro del santuario, nei pressi del tempio di Apollo e del trìpode eretto per celebrare la vittoria sui persiani di Platea: una posizione quindi di grande prestigio. Sempre intorno al 470 a.C. la coalizione iapigia inflisse una grave sconfitta ai Tarantini ed ai reggini loro alleati (Erodoto, VII, 170; Diodoro Siculo, XI, 52). E' dubbio se tale evento sia da collocarsi dopo le due vittorie tarantine o fra queste, di certo causò il cambio di regime politico della città con l'avvento della democrazia. Proprio l'analisi del secondo donario offerto dai Tarantini a Delfi ha indotto la maggioranza degli studiosi a considerare il pesante rovescio bellico come precedente alla seconda vittoria e alla conseguente caduta del governo oligarchico. La presenza sul monumento dell'ecista Falanto, dell'eroe Taras e del delfino, simboli della città, lasciano intendere una partecipazione corale della comunità all'impresa militare, non più quindi appannaggio quasi esclusivo degli aristocratici di nobile origine spartana. Una ipotesi estremamente suggestiva, avanzata dall'archeologo inglese D. Williams, vede in alcuni frammenti in bronzo conservati al British Museum ciò che resta di una replica del donario di Onata. Tale gruppo sarebbe stato eretto a Taranto proprio negli stessi anni in cui veniva dedicato nel santuario di Delfi il più recente degli ex-voto tarantini. Fra i reperti esposti a Londra ricondotti a questa composizione, notevole è la gamba destra di un cavaliere, conservata fino alla parte centrale del piede. Di dimensioni maggiori del vero, è protetta da uno schiniere decorato all'altezza del ginocchio da una testa di Gorgone.
Così, di una vittoria ottenuta nel 433 a.C. contro Turi a termine di una guerra decennale combattuta per il possesso del territorio della distrutta città di Siris (Diodoro Siculo XII, 23, 2; XII, 36, 4), ci informa una dedica su una punta di lancia rinvenuta ad Olimpia, e conservata a Berlino. Lo scontro fra le due póleis si concluse con la fondazione congiunta di Eraclea (Strabone, VI, 1, 14), che ben presto entrerà esclusivamente nell'orbita di influenza tarantina. Nell'ambito della lotta per la Siritide è da collocarsi la controversa notizia di una alleanza fra Tarantini, Dauni e Peuceti contro i Messapi, riportata da Strabone (VI, 3, 4, p.281). Non si può escludere però che l'episodio faccia riferimento al periodo della spedizione di Alessandro il Molosso (334-331 a.C.). L'amicizia che legava la città a Siracusa, altro grande polo della grecità d'occidente, ebbe modo di manifestarsi all'epoca della spedizione di Sicilia (415-413 a.C.), durante la seconda guerra del Peloponneso. L'atteggiamento di Taranto, astenutasi dalla partecipazione diretta al conflitto, fu improntato all'appoggio esterno alla colonia corinzia: per tale motivo, suscita perplessità fra gli studiosi moderni un episodio riportato da Tucidide (VII, 33), che ricorda uno scalo effettuato presso le Isole Chèradi (Mar Grande) dalla flotta ateniese diretta in Sicilia, allo scopo di imbarcare centocinquanta lanciatori di giavellotto di stirpe messapica. Ciò, riferisce lo storico, in virtù di una antica amicizia con il re messapico Arta, stretta ovviamente in ottica anti-tarantina. L'identificazione delle Choiràdes citate con le isole poste di fronte Taranto, data per certa dalla tradizione locale e non solo, è però molto dubbia. Come è noto, nel V secolo a.C. i rapporti politici fra Taranto ed Atene furono tutt'altro che buoni, ne abbiamo anche una prova archeologica nel netto calo di importazioni di ceramica Attica a figure rosse che si verifica nel corso del secolo. Appare improbabile quindi che l'episodio narrato da Tucidide possa essere avvenuto sulle isole immediatamente a sud della città, certamente in antico controllate dalla pólis laconica. All'età di Archita (367-361 a.C.) risalgono una vittoriosa campagna militare contro i Messapi (Aristosseno fr. 30 Wehrli, presso Giamblico, Vita Pitagorica, 197) e, forse, un intervento in favore di Turi, che era stata occupata dai lucani (Strabone, VI, 1, 13). Già pochi decenni dopo il suo governo, Taranto, per difendersi dai "barbari", fece ricorso a condottieri mercenari provenienti sia da Sparta (Archidamo, Cleonimo) che dall'Epiro (Alessandro il Molosso).
Nel 334 a.C. Taranto assoldò Alessandro il Molosso, allo scopo di liberare dall'occupazione dei Lucani la città di Eraclea (odierna Policoro), capitale federale della "Lega Italiota", l'alleanza militare cui facevano capo i centri della Magna Grecia. Il sovrano d'Epiro, zio e cognato di Alessandro Magno, tentò di emulare in occidente le imprese militari dell'illustre condottiero macedone. Abbandonato dai Tarantini, che non vedevano positivamente le sue mire espansionistiche, progettò di trasferire a Turi la sede della Lega Italiota, in aperta rottura con la pólis laconica. Fu ucciso durante uno scontro armato vicino Cosenza (331 a.C.), trafitto dalla lancia di una sua guardia del corpo, un esule lucano (Livio, Ad urbe condita, VIII, 24). Lo spartano Cleonimo affrontò nel 303 a.C. i Lucani ed i Romani. Fra le fila del suo imponente esercito vi erano anche guerrieri Messapi, in una inedita alleanza con i Tarantini che si ripeterà poi all'epoca della guerra di Pirro. Anch'egli venne successivamente abbandonato da Taranto per le sue pretese egemoniche, che lo porteranno a tentare prima un attacco alla Sicilia e poi a cercare fortuna nell'alto Adriatico, dove sarà sconfitto dai Veneti. Quest'ultima inconsueta impresa nel Mediterraneo settentrionale, nota solo grazie a Livio (Ad urbe condita, X, 2), ha suscitato dubbi in parte della storiografia moderna circa la sua autenticità. Anche Pirro, chiamato dai Tarantini contro i romani, era un sovrano epirota (Plutarco, Vita di Pirro). Causa scatenante del conflitto, la violazione del trattato di Capo Lacinio (303 a.C.), che impediva al naviglio romano di oltrepassare il limite oggi noto come Capo Colonna, nei pressi di Crotone (Appiano, Storia di Roma, le guerre sannitiche, 7). Antefatto allo scontro, le fonti ricordano un episodio, divenuto celebre, secondo il quale un certo Filonide avrebbe schernito gli ambasciatori romani inviati in città prima dello scoppio della guerra, imbrattando di urina le loro vesti (Dionisio di Alicarnasso, Antichità romane, XIX, 5, 2; Cassio Dione, Storia romana, IX, 39, 7; Floro, Epitome di storia romana, I, 13, 5). Giunto a Taranto nella primavera del 280, Pirro ottenne una importante vittoria nel luglio dello stesso anno ad Eraclea, nella quale impiegò, primo sul suolo italico, un corpo di fanteria che montava una ventina di elefanti, animali totalmente sconosciuti ai romani (Plinio, Storia naturale, VIII, 6). Questa vittoria fu celebrata in città con l'erezione di una colossale statua in bronzo raffigurante la dea Nike, successivamente trasportata a Roma (vedi "La Scultura").
Il sovrano epirota decise allora di spostare parte delle sue truppe in Sicilia, dove le città greche erano gravemente minacciate dai Cartaginesi. Scopo di Pirro era di quello di porre l'intera isola sotto la sua egemonia; nell'impossibilità di condurre una guerra su due fronti, propose quindi un trattato di pace ai romani, ai quali chiedeva che fosse garantita l'indipendenza di Taranto e delle altre città italiote, nonché degli italici che avevano combattuto con lui. I Romani potevano accettare tali condizioni solo a patto che Pirro rinunciasse ai suoi programmi di conquista della Sicilia. Roma aveva da poco stipulato un accordo con Cartagine (278 a.C.) con il quale riconosceva il suo dominio sull'isola (Polibio, III, 25); non poteva quindi assecondare i progetti del re dell'Epiro, nel timore che ciò avrebbe scatenato uno scontro aperto con la potenza punica, o peggio una loro alleanza proprio con Pirro contro di Roma.
Tornato nella penisola, affrontò nuovamente i Romani a Maluentum (ribattezzata Beneventum, "buon evento") nella primavera del 275 a.C., venendo sconfitto definitivamente. Pirro allora rientrò in patria per combattere Antigono Gonata, al quale contendeva il regno di Macedonia. Morì in guerra presso Argo nel 272 a.C.; nello stesso anno, cadde il presidio che aveva lasciato a difesa di Taranto, al cui comando per circa una anno Milone era stato affiancato da Eleno, figlio del condottiero epirota, richiamato dal padre con parte delle truppe verso la fine del 274 a.C. La città, dichiarata socia, mantenne l'autonomia politica e la possibilità di battere moneta, ma era obbligata ad ospitare una guarnigione romana ed a fornire navi in caso di guerra. Dopo la vittoria cartaginese di Canne (seconda guerra punica, 2 agosto del 216 a.C.), Taranto passò dalla parte di Annibale. Il generale punico si impadronì della città nel 213, grazie ad un complotto organizzato da alcuni giovani esponenti del partito popolare, ostili ai romani e all'aristocrazia cittadina che li appoggiava. Col pretesto di effettuare una battuta di caccia notturna, i congiuranti fecero penetrare attraverso le mura orientali l'esercito cartaginese, che occupò l'abitato ad eccezione dell'acropoli, dove si era rifugiato il presidio romano posto a controllo della città. Taranto fu poi riconquistata da Quinto Fabio Massimo nel 209 a.C., grazie al tradimento di Filemeno (Polieno, Stratagemmi, VIII, 14, 3), ufficiale del contingente di Bruzi annesso alle truppe puniche, che si era innamorato della sorella di un militare di Fabio, secondo Livio una tarantina. Egli fece entrare i soldati romani da oriente, i quali colsero di sorpresa la guarnigione cartaginese al comando di Cartalone, impegnata a fronteggiare un attacco simultaneo partito dall'acropoli e dal mare, ad occidente (Polibio, X, 1; Livio, Ad urbe condita, XXVII, 15-17; Plutarco, Vita di Fabio Massimo, 21-23). La defezione di Taranto fu duramente punita dai romani, che la misero a ferro e fuoco deportando circa trentamila prigionieri poi venduti come schiavi, e trasferendo a Roma grandissime quantità di oro ed argento. Raggiunsero l'Urbe anche famosi capolavori d'arte, come la colossale statua in bronzo raffigurante Eracle composta da Lisippo per l'acropoli nel IV secolo a.C. Lo storico seicentesco Ambrogio Merodio, citando come fonte tale Annibale Tianeo, ricorda in merito al sacco della città un episodio che diventerà celebre nell'ambito dell'erudizione locale: il sacrificio della sacerdotessa Lisea e delle vergini del santuario di Atena, le quali per sfuggire alla violenza dei conquistatori si suicidarono gettandosi nel vuoto dalla sommità del tempio. A Taranto, foederata di Roma, venne inoltre imposto il pagamento di un pesante tributo annuo ed il divieto di battere moneta. |
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Le istituzioni politiche di Taranto greca Il primo governo di Taranto fu certamente di natura aristocratica, su modello dell'ordinamento politico vigente nella madrepatria Sparta. Al vertice delle istituzioni laconiche vi erano due re (diarchia), espressione delle nobili famiglie degli Agiadi e degli Euripontidi. L'assemblea formata da tutti i cittadini che godevano dei diritti politici e che avevano compiuto trent'anni (gli Eguali), prendeva il nome di Apella. Ad essa spettava il compito di eleggere i ventotto membri della Gherusia, il collegio di anziani che proponeva le leggi, e i cinque Efori, gli ispettori con poteri di controllo su tutto il popolo, compresi i re. Appare tuttavia difficile che il rigido sistema costituzionale spartano, che indusse, in definitiva, l'allontanamento dei Parteni e l'organizzazione della spedizione coloniale (vedi "La Storia - La fondazione della città tra mito e realtà storica"), sia stato trasferito integralmente a Taranto, dove è più probabile ci fosse un governo oligarchico aperto non solo ai nobili ma anche alle classi dotate di un certo censo, come i mercanti. Significativo in questo senso è che Aristotele (Politica 1303a) definisca tale ordinamento politeia e non aristokratia, lasciando intendere una maggiore partecipazione alla cosa pubblica dei ceti solitamente esclusi dal potere nei regimi aristocratici (L. Moretti).
Nulla sappiamo in merito alla presenza di una Gherusia, mentre è certo che a Taranto esistesse l'istituto dell'eforato, cui abbiamo notizia, di riflesso, dalla presenza di tale magistratura ad Eraclea, fondazione tarantina (odierna Policoro). Nel 1983, nel corso di scavi condotti all'interno del cortile dell'Istituto "Righi", si rinvenne un'anfora vinaria di fabbricazione chiota datata alla fine del IV secolo a.C., recante sulla spalla il nome di un eforo ("dell'Eforo Aristodamo"). Si tratta probabilmente di una iscrizione che, citando il magistrato eponimo, faceva riferimento all'anno nel quale il contenitore fu riempito. Intorno al 470 a.C., una grave sconfitta subita dai Messapi causò un cambiamento di indirizzo politico a Taranto con l'avvento della democrazia. Fu istituita l'assemblea popolare plenaria (Halia), mentre l'esistenza di una Bulè (assemblea dei rappresentanti del popolo) pare attestata indirettamente da Ateneo (Euforione presso Ateneo, Deipnosofisti, XV, 700d) che cita il Pritaneo, l'edificio in cui si riunivano i "Pritani", cioè i 50 membri della Bulè che ad Atene mensilmente ne reggevano la presidenza. L'Eforato continuò ad esistere anche nella nuova costituzione democratica; tuttavia non ci è noto quanti fossero gli efori in carica annualmente a Taranto (a Sparta erano cinque, uno per ogni tribù - oba - in cui era divisa la popolazione). Da Aristotele (Politica 1320b) sappiamo che si introdussero, accanto alle magistrature elettive, magistrature attribuite per sorteggio, quest'ultime tipiche delle democrazie. Al vertice delle istituzioni vi era un collegio di strateghi, retto annualmente da uno strategòs autocrator, "stratego con pienezza di poteri", al quale spettava la presidenza dell'assemblea popolare ed il comando dell'esercito. E' da supporre che la norma che vietasse la rielezione alla strategia sia stata abrogata proprio in onore di Archita, che fu stratego per sette anni consecutivi dal 367 al 361 a.C. (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, VIII, 79).
Conosciamo il nome di altri strateghi tarantini, come quello del conservatore Agide nel 281 a.C., favorevole alla pace con Roma durante la guerra di Pirro (Zonara, VIII, 2; Plutarco, Vita di Pirro, 13, 5; 15, 1). Lo stratego Dinone è ricordato da Plutarco (Moralia, Cause greche, 42), in un passo nel quale vi è un controverso riferimento alla possibilità che gli eletti alla strategia potessero porre il veto all'esito di una votazione dell'assemblea popolare cittadina. Dopo la conquista romana, Taranto rimase formalmente indipendente fino all'89 a.C., anno di istituzione del municipio tarantino. Nel nuovo organismo amministrativo si fusero le due realtà distinte della colonia Neptunia Tarentum (vedi "La Città - I quartieri abitativi") e della vecchia comunità ellenica (Plinio, Storia Naturale, III, 99). Pritani sono citati in alcune epigrafi frammentarie datate ancora alla fine del II secolo a.C., relitto dell'antica organizzazione istituzionale. In ogni modo, la piena romanizzazione della città dal punto di vista politico non impedì al centro greco di conservare a lungo i caratteri culturali ellenici, fino al termine dell'età imperiale. Ciò appare evidente dai contatti che questo ebbe con Sparta romana, testimoniati da alcuni reperti epigrafici. Ad esempio, una iscrizione sepolcrale in greco della metà del III secolo d.C. ci dà notizia del trasferimento e della morte a Taranto di un personaggio, Marco Aurelio Sereno Eliodoro, già buleuta (membro della Bulè) ad Alessandria d'Egitto, in Elide e a Delfi, ricordato come segretario (grammateus) dell'associazione atletica spartana (L. Gasperini). Per l'età di Commodo (180-192 d.C.) è attestata inoltre la presenza di un presbeutes (ambasciatore) di Sparta a Taranto, sebbene tale carica fosse ormai da intendersi solo a titolo onorifico (IG V 1, 37, B). |
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Organizzazione militare e tecniche di combattimento nella Taranto greca Le fondazioni coloniali greche in Italia meridionale avvennero nella maggioranza dei casi attraverso la sottrazione, esercitata con la forza, di fasce di territorio più o meno ampie, già controllate o occupate dalle popolazioni indigene. Il fenomeno interessò i secoli VIII e VII a.C., epoca nella quale si affermarono nella madrepatria significative innovazioni sia nell’equipaggiamento militare, con l’introduzione dello scudo di grandi dimensioni (hóplon), che nelle tecniche di combattimento, basate ora sull’utilizzo della falange “oplitica”, che traeva denominazione proprio dal nome dell’arma da difesa in dotazione ai fanti. Si trattava di una nuova formazione tattica a ranghi compatti che sostituì rapidamente le modalità di scontro “eroiche”, tipiche delle società omeriche, nelle quali l’evento bellico era attività prevalente delle aristocrazie, e limitato in forma quasi esclusiva al confronto corpo a corpo. Scopo della falange era quello di provocare, attraverso la carica, una notevole forza d’urto tramite la pressione degli scudi, tale da scompaginare le forze nemiche.
Dalla penuria generale di informazioni per ciò che riguarda l’organizzazione militare degli italioti si discosta il caso della città di Taranto, per la quale le fonti e la documentazione numismatica ed archeologica ci forniscono notizie piuttosto circostanziate per il periodo a partire dal IV secolo a.C. Sulla consistenza delle forze armate tarantine ci informa Strabone (VI, 3), che per l’età di Archita (367-361 a.C.) parla di tremila cavalieri, mille ipparchi (comandanti di cavalleria) e trentamila fanti. Si tratta di cifre che attestano chiaramente per la città il ruolo di potenza militare dell’epoca, se si considera che, ad esempio, il dato sulla fanteria è superiore di mille unità a quello documentato da Tucidide (II, 13) per l’Atene dell’età di Pericle (431 a.C.). Più controversa la notizia straboniana dei mille ipparchi, cifra considerata eccessiva dalla storiografia moderna, e piuttosto da intendersi, forse, come un errato riferimento ad una classe distinta di cavalleggeri, gli ippakontistái.
La cavalleria tarantina ebbe un ruolo di primo piano nei successi militari della pólis laconica, contribuendo in modo determinante alla sua ascesa quale potenza egemone della regione. A partire dalla metà del V secolo a.C. le monete emesse dalla zecca di Taras documentano, con le varie serie dei “cavalieri”, l’affermarsi fra le fila dell’esercito cittadino di formazioni di combattenti a cavallo armati alla leggera, per le quali disponiamo di precise descrizioni dalle fonti, e che ricoprirono una notevole importanza già all’epoca della guerra condotta da Taranto contro Turi per il possesso del territorio della Siritide (443-433 a.C.). La fama raggiunta in antico dalla cavalleria tarantina fu tale che i suoi modelli organizzativi e le sue tecniche di combattimento furono adottate in tutto il mondo ellenistico. Ne è prova la diffusione, documentata nei trattati di tecnica militare antichi, di termini che ad essa fanno chiaramente riferimento, come tarantinarchía (Arriano, Tact. 18, 2; Eliano, Tact., 20, 2; Asclepiodoto, Tact., 7, 11; Suda ε 3931), con il quale si indicava uno squadrone di duecentocinquantasei cavalieri, diviso in due o in quattro formazioni poste sotto il comando di ilarchi. Si trattava dell’unità tattica di combattimento della cavalleria di Taranto.
Nello specifico, i tarantìnoi erano suddivisi in due categorie: gli ippakontistái (i tarantìnoi propriamente detti), che combattevano a distanza lanciando due o tre giavellotti; e gli elaphrói che, dopo aver scagliato le armi da lancio, caricavano il nemico attaccandolo con una corta spada e saltandogli addosso dal cavallo ancora in movimento. Tale acrobazia è indicata da Stefano di Bisanzio (603) e da Eustazio (Scoli a Dionigi Periegeta, 376) col verbo tarantinízein, da tradursi come “combattere alla tarantina”; ulteriore prova della fama raggiunta da questi reparti specializzati. Il piccolo e luccicante scudo argentato rotondo, sempre presente infilato all’avambraccio sinistro dei cavalieri di Taranto, valse loro l’appellativo di leukáspides “dai bianchi scudi”. Tale armamento difensivo ricorreva simile, ma di dimensioni maggiori, anche al braccio dei fanti, ed è di origine macedone. E' quindi probabile che sia stato introdotto in Italia durante la spedizione di Alessandro il Molosso (334-331 a.C.). Sui conii monetali di Taranto mancano rappresentazioni di arcieri a cavallo (hippotoxotai) mentre sono presenti raffigurazioni di amphippoi, cavalieri che conducevano con sé anche un animale di riserva (Livio, Ad urbe condita, XXXV, 28, 8).
Nulla sappiamo circa l’utilizzo in città di strumenti ed innovazioni tecniche in uso negli ambienti militari spartani, come la scitala, il più antico sistema di crittografia conosciuto, ricordata da Plutarco (Vita di Lisandro, XIX). Si trattava di un bastone utilizzato per la corrispondenza di messaggi cifrati, scritti in senso verticale su una striscia di pelle arrotolata intorno ad esso. Per essere interpretate, era necessario che tali comunicazioni fossero lette dal destinatario tramite un bastone dello stesso diametro di quello utilizzato dal mittente. Ad un famoso architetto ed ingegnere militare tarantino, Herakleides, vissuto nella seconda metà del III secolo a.C., è attribuita l'invenzione di una macchina da guerra, la sambyke (sambuca), cosiddetta in virtù della sua somiglianza con lo strumento musicale a corda (Mosco presso Ateneo, Deipnosofisti, XIV, 634b). Si trattava di una sorta di ponte levatoio, ancora in uso nel medioevo, utile per guadagnare la sommità delle mura nemiche che si affacciavano direttamente sul mare. Formata da una scala in cima alla quale era issata una piattaforma protetta su tre lati, atta ad ospitare quattro uomini, la sambuca veniva posta su due navi accostate e sollevata tramite un complesso sistema di carrucole, allo scopo di farla poggiare sul parapetto difeso dagli assediati. Vinta la loro resistenza, gli attaccanti potevano così superare la cinta muraria e procedere all'invasione.
Un altro ingegnere militare tarantino, il pitagorico Zopyros, vissuto nel IV secolo a.C., è noto per aver progettato grandi balestre per le città di Mileto e di Cuma. Ricordate col nome di gastraphetes (arco dello stomaco), queste artiglierie sono descritte da Bitone nel suo trattato di meccanica (Kataskeuai, 61, 2 - 67, 3), opera però nella quale si attribuisce l'invenzione della sambyke a Damide di Colofone. Si trattava di armi basate sull'utilizzo dell'arco composito, capace di scagliare proiettili a grande distanza. Il tipo realizzato per Mileto era detto "gastrafete binato" poiché consentiva il lancio contemporaneo di due dardi, forse all'epoca l'unica macchina bellica dotata di tale possibilità. Una colonna dell'altezza di un metro, inserita in un affusto a tripode, reggeva l'arco dotato di un teniere lungo 2,10 metri e di una corda di circa 4,80 metri. La balestra realizzata da Zopyros per Cuma era detta invece "di montagna" in virtù delle sue dimensioni più contenute, atte a consentirne l'utilizzo poggiandola direttamente sul ventre. Tale modalità di impiego è suggerita chiaramente dal nome stesso dell'arma, passato poi per estensione ad indicare tutte le macchine di questo tipo. Un'utile informazione sull'equipaggiamento dei soldati tarantini può essere desunta, forse, grazie ad una interessante scoperta archeologica. Alcune fonti antiche (Archiloco presso Ateneo, Deipnosofisti, XI, 483d; Plutarco, Vita di Licurgo, IX) documentano l'utilizzo fra le truppe spartane di un vaso particolare, il kóthon, un recipiente usato per bere e, forse, anche per la distribuzione quotidiana del famoso "brodo nero", un miscuglio di sangue, aceto e grasso di maiale. Si è proposto di riconoscere tale forma ceramica, non ancora identificata con certezza, in una coppia di boccali monoansati di produzione laconica rinvenuti in una tomba scoperta a Taranto nel 1935 in Via Japigia.
Ugualmente scarne sono le notizie in nostro possesso circa la flotta cittadina, la cui imponenza è peraltro ricordata da Strabone nel passo già citato. Aristotele (fr. 614 Rose) parla di navi da carico atte al trasporto specifico di cavalli, mentre Tucidide (VIII, 91) ci informa della presenza di alcune imbarcazioni da guerra tarantine fra le quarantadue che durante la guerra del Peloponneso mossero verso l’isola di Eubea, ribellatasi agli ateniesi (412 a.C.). Da altre fonti apprendiamo del contingente di venti navi che nel 315 a.C. fu inviato in supporto alla fallita spedizione dello spartano Acrotato contro il tiranno di Siracusa Agatocle (Diodoro Siculo, XIX, 70); nonché dell’offerta di aiuto navale a Napoli nel 327 a.C., in occasione dello scoppio del conflitto interno greco - osco, che terminerà con l’ingresso della città partenopea nella sfera di influenza di Roma (Dionisio di Alicarnasso, Antichità romane, XV, 5, 3). Celebri le operazioni condotte nell’autunno del 282 a.C. contro le dieci triremi romane che, in violazione del trattato di capo Lacinio (303 a.C.), erano entrate nel golfo di Taranto. L’episodio, causa scatenante della guerra con Roma, portò all’affondamento di quattro imbarcazioni, alla confisca di una quinta ed alla fuga di quelle restanti. La flotta tarantina fu nuovamente vittoriosa su quella romana nel 210 a.C., all’epoca della guerra di Annibale, quando una squadra di venti navi al comando del navarca Democrate ne sconfisse una costituita da altrettante navi nemiche. Quest'ultime erano impegnate nel tentativo di scortare alcune imbarcazioni onerarie destinate al vettovagliamento del presidio romano posto sull'acropoli (Livio, Ad urbe condita, XXVI, 39). L'anno seguente, un contingente navale tarantino fu inviato in aiuto di Filippo V di Macedonia, alleato dei Cartaginesi, il quale stava fronteggiando presso l'isola di Corfù una coalizione di truppe romane ed etoli. Le vicende della seconda guerra punica, terminata con il sacco della città da parte di Quinto Fabio Massimo (209 a.C.), comportarono la resa della flotta cittadina e la consegna delle sue unità a Roma. |
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