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Le Terrecotte |
[sommario] Le terrecotte votive - Le terrecotte funerarie - Le terrecotte architettoniche |
L’elevata quantità di statuette e rilievi a destinazione votiva, rinvenuti in tutta l’area urbana di Taranto, documenta la diffusione in città della pratica di donare ex-voto fittili durante cerimonie cultuali private. Tali offerte erano poste presso gli altari dei santuari; quando il loro numero diventava eccessivo venivano raccolte in “stipi votive”, fosse scavate a tale scopo presso le aree di culto. In questi depositi i reperti si rinvengono spesso in frammenti, forse rotti intenzionalmente per motivi rituali.
Le terrecotte più antiche si datano al VII secolo a.C. e rimandano agli xoana, le statue ricavate dai tronchi d’albero. Si tratta di figure femminili di stile dedalico, a volte raffigurate con in braccio un bambino. L’uso della matrice si riduce in alcuni casi alla sola testa, con il resto del corpo di forma cilindrica plasmato al tornio. Nel VI secolo i tipi più diffusi sono le terrecotte di divinità femminili assise su troni, di difficile interpretazione, e le figure stanti di offerenti femminili. Verso la fine del secolo compare un soggetto destinato a grande fortuna nell’ambito della coroplastica votiva tarantina, tanto che ne diventerà il più riprodotto: si tratta del cosiddetto “recumbente”, banchettante disteso su kline (letto). Variamente interpretato, come defunto eroizzato che partecipa al banchetto dei beati o come raffigurazione di Dioniso kataktonios (epiteto che designa gli aspetti legati al mondo dei morti del suo culto), il tipo perdurerà fino all’esaurirsi della pratica di dedicare votivi fittili a metà del III secolo a.C. Poco diffuse, ma datate sempre al VI secolo, sono le placche con teorie di figure femminili stanti o sedute, sulle quali sono state avanzate diverse ipotesi interpretative che le identificherebbero come le Muse, le Ore, le Grazie, o come l’immagine replicata di una stessa divinità. Tali raffigurazioni cessano di essere dedicate entro il primo venticinquennio del IV secolo, così come quelle con divinità su trono, soggetto quest’ultimo che compare di rado già nel V secolo, nelle varianti con la spalliera sovente sormontata da una palmetta. Nel V secolo la coroplastica votiva di Taranto si rinnova profondamente sia sotto il profilo tecnico che iconografico. Le officine dei figuli danno nuovo impulso alla produzione che, per soddisfare le richieste della committenza, aumenta sensibilmente. Il cambio di indirizzo politico del 473 (vedi “La Storia - Le guerre di Taranto greca”) aveva portato mutamenti nel rituale funerario, con un netto ridimensionamento della ricchezza dei corredi forse in ottemperanza a leggi anti-suntuarie. E’ probabile che ciò abbia orientato anche le classi abbienti verso votivi meno impegnativi come quelli in terracotta (G. Abruzzese Calabrese). Il tipo del recumbente subisce un’evoluzione: alla figura maschile su kline se ne aggiunge una femminile seduta o stante ai suoi piedi, che a partire dagli inizi del IV secolo a.C. porta in braccio un bambino. Difficile dire se si tratti di una rappresentazione della sposa del defunto o di Persefone con in grembo il piccolo Iakkos, suo figlio. Queste terrecotte sono ottenute in un primo momento utilizzando una matrice diversa per la figura femminile; successivamente ne viene impiegata solo una che unisce tutte e due le figure. Perdura il soggetto della donna stante (Demetra o kore), mentre compaiono i tipi del cavaliere, del guerriero e della dea Artemis-Bendis con arco e cerbiatto come attributi. Datati sempre al V secolo, si rinvengono inoltre busti femminili di notevoli dimensioni raffiguranti ancora una volta Demetra o kore.
Ugualmente destinati ad essere sospesi, sono noti anche dischi fittili con busti femminili resi di prospetto e con il capo ornato da un diadema, probabili rappresentazioni di Afrodite. Sempre nel IV secolo viene introdotto l’utilizzo di una matrice anche per la parte posteriore delle terrecotte figurate, in precedenza lasciata cava o liscia. Vivaci colori stesi su ingobbio bianco caratterizzano inoltre i prodotti di quest’epoca. All’interno delle stipi due nuovi soggetti, un giovane e una giovinetta stanti interpretati come Hyakinthos (Giacinto) e sua sorella Poliboia, sostituiscono quello fino allora prevalente del banchettante steso su kline. L’identificazione dei due personaggi è stata fatta sulla base di una notizia riportata da Polibio (VIII, 30), secondo il quale Annibale, in attesa del suo ingresso in città, avrebbe riparato in un luogo di culto tombale (Táphos) suburbano, dedicato ad Apollo/Hyakinthos, divinità amante di Apollo e a Taranto con egli identificato (nel mito Hyakinthos è ucciso per errore proprio da Apollo durante il lancio di un disco deviato nella sua traiettoria dal geloso Boreas, il vento del nord). Tale monumento è stato localizzato, senza alcuna certezza, in contrada Carmine (Viale Magna Grecia angolo Corso Italia) sulla base del rinvenimento in quel luogo di alcune stipi che hanno restituito migliaia di terrecotte che riproducono i due soggetti. Da qui la dubbia interpretazione con Hyakinthos e Poliboia. Questi due tipi sono gli ultimi con funzione esclusivamente votiva. Con la metà del III secolo a.C. cessa quasi del tutto l’usanza di deporre tali oggetti e le terrecotte figurate compaiono ora, talvolta copiosamente, nelle tombe. Tuttavia, non mancano esempi di ex-voto fittili anche per l'età ellenistica, che però mostrano caratteristiche iconografiche e tecniche molto differenti, tali da non permettere una sicura distinzione nell'ambito della coroplastica a specifica destinazione votiva. E' il caso, ad esempio, delle terrecotte raffiguranti Afrodite scoperte presso il Santuario della Sorgente a Saturo (Leporano-Taranto), che presentano tipi del tutto simili a quelli noti dai rinvenimenti nelle tombe coeve di IV-III secolo a.C. (D. Graepler). Una bella testa esposta al Metropolitan Museum of Art di New York documenta, invece, il perdurare di una produzione di statue fittili di grandi dimensioni, alternativa alle più costose realizzazioni plastiche in marmo. Si tratta però di opere che esulano dal settore specifico di studi della coroplastica votiva.
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L’usanza di inserire statuette fittili fra gli oggetti di corredo funerario si diffonde a Taranto a partire dalla seconda metà del IV secolo a.C.
L’intensificarsi dei rinvenimenti di statuette fittili all’interno delle tombe avviene in concomitanza con la diminuzione delle dediche di votivi nelle aree di culto. Tuttavia alcuni soggetti diffusi in ambito funerario nella seconda metà del IV secolo si rinvengono anche nelle stipi. E’ il caso ad esempio delle figure femminili sedute (differenti da quelle arcaiche che erano assise su troni), interpretate come Persefone o Afrodite (divinità protettrici del matrimonio), o delle cosiddette “tanagrine” (dal nome della città di Tanagra, principale luogo di rinvenimento di questi reperti). Si tratta di figure di produzione locale che replicano i modelli elaborati ad Atene e diffusi dagli ateliers beoti del periodo, caratterizzati da un movimento maggiore nell’impostazione del busto e del capo rispetto alle opere di età arcaica o classica. Nel IV secolo, accanto ai soggetti citati, sono molto comuni le statuette femminili stanti o appoggiate ad un louterion (bacino su alto piede), interpretate come Afrodite. Si ritiene che il tipo della donna nuda appoggiata ad una colonnina, noto da reperti diffusi in tutta l’Italia meridionale, sia un soggetto originariamente concepito a Taranto modificando in modo del tutto originale un modello tanagrino. In un famoso esemplare del periodo Afrodite è ritratta dentro le valve di una conchiglia, o ancora in una rara composizione con Eros sulle spalle. Difficilmente interpretabili le numerose figure femminili alate, solo in alcuni casi identificate con sicurezza come Nikai. Riferimenti dionisiaci sono leggibili nelle statuette di attori teatrali, nei modelli miniaturisti di maschere o ancora nelle curiose rappresentazioni di donne contorsioniste, note in tre esemplari da due differenti contesti tombali datati al IV secolo a.C.
Il livello tecnico raggiunto è molto alto. Si diffonde l’utilizzo di vivaci colori stesi su ingobbio bianco ed aumentano anche le dimensioni delle statuette che, ottenute mediante due o più matrici, superano spesso i venti centimetri di altezza. Molto comuni appaiono ora le rappresentazioni di danzatrici dai vistosi panneggi o le figure femminili stanti con la caratteristica pettinatura detta “melon frisur” appunto perché ricorda gli spicchi del melone. Caratteristiche delle officine di coroplasti tarantini, le teste dal collo lungo e le braccia libere nei movimenti, impostate a rendere evidente il ritmo vorticoso dei passi di danza. Afrodite ritratta nell’atto di allacciarsi il sandalo ripropone un modello della scultura ellenistica che ha origine in Asia Minore, offrendo una visione "umanizzata" della divinità tipica del periodo. La produzione di terrecotte funerarie si dimostra vitale anche dopo i tragici eventi della guerra annibalica, e si interrompe solo nella seconda metà del II secolo. Tale interruzione non sarà però definitiva, poiché nuovi soggetti si diffonderanno per un breve periodo di tempo durante la seconda metà del I secolo a.C., in un contesto culturale ormai completamente romanizzato. Si tratta di statuette che riproducono i realistici soggetti della vita quotidiana, come il lettore di papiro, l’oratore o il gladiatore. Differenze si riscontrano anche sul piano tecnico: sparisce l’ingobbio ed il colore è steso direttamente sull’argilla.
Un esemplare notevole di questo tipo di oggetti, realizzato però in osso, proviene da Taranto ed è esposto al Metropolitan Museum of Art di New York. Essa è particolarmente importante poiché costituisce il più antico esempio finora noto di una figurina greca con membra mobili ricavata utilizzando tale materiale (inizi del III secolo a.C.). Tornando alle statuette in terracotta, è più probabile che queste abbiano avuto un significato preciso all’interno dei contesti funerari, legato nello specifico alle esigenze di caratterizzazione sociale dei giovani inumati, ai culti curotrofici (inerenti cioè alla protezione dei fanciulli), o ai riti di passaggio dall’età giovanile a quella adulta. |
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Con il termine "cassetta" indichiamo le membrature fittili poste a copertura della faccia a vista del geison (cornice). Gli esemplari più semplici sono formati da una tegola orizzontale di appoggio collegata ad una sottostante lastra verticale pendula, spesso dipinta con una treccia, semplice o doppia. Al termine della piastra frontale può esserci un'ulteriore tegola orizzontale; quest'ultima conferisce alla membratura in questione la forma appunto di una "cassetta", ben visibile in sezione. Le terrecotte architettoniche funzionali alla raccolta delle acque meteoriche provenienti dal tetto prendono il nome di "sime" (gronde). Gli esemplari più antichi (prima metà del VI sec.a.C.) formano un unico elemento con la cassetta, e sono spesso caratterizzati dalla presenza del "cavetto", modanatura a profilo concavo decorata con teorie di "lingue" rilevate o di foglie doriche, secondo modelli noti sul finire del VII secolo a.C. in Laconia e nella Grecia nord-occidentale. Queste antepagmenta sono costituite da una tegola orizzontale inferiore di appoggio e una lastra verticale sulla quale si aprono gocciolatoi sovente a testa di leone; tuttavia non mancano forme diverse, come le rare grondaie "a canale", attestate da pochi esemplari.
Le terrecotte architettoniche recuperate nel 1933-34 in Via Dante assieme a due nikai (vittorie) acroteriali fittili erano probabilmente pertinenti ad un sacello votivo eretto verso la fine del VI secolo a.C. ai margini di un’area di necropoli. La lastra di sima, rinvenuta in connessione con una cassetta perfettamente combaciante, presenta al centro una grondaia a canale, in parte conservata, affiancata da rientranze funzionali all’inserimento di antefisse. La vivace policromia e la raffinatezza della decorazione dipinta testimoniano l’alto livello qualitativo raggiunto da questo settore dell’artigianato tarantino in età arcaica. Un motivo pressoché costante sulle sime tarantine è la presenza di una fascia decorata a meandro nero con svastiche che si alternano a motivi stellari ad otto raggi entro quadrati rossi. Il risvolto inferiore delle lastre, allo spigolo con la fronte, è a volte decorato; particolarità che lascia intendere un posizionamento leggermente sporgente rispetto alle sottostanti cassette.
Altra tipologia di rivestimento protettivo architettonico del bordo del tetto è quella costituita da tegole di gronda ed antefisse lungo l’orlo dei lati lunghi. E’ questa una soluzione di più antica origine in Grecia (VII sec. a.C.), ma che nelle póleis coloniali del sud Italia è affiancata già dalla prima età arcaica dalla composizione sima più cassetta. Non mancano tuttavia esempi di edifici nei quali sono presenti tutti e tre gli elementi architettonici. Le collezioni del museo tarantino sono ricche di numerosi esemplari di antefisse, la cui produzione ha inizio già nel VII secolo a.C. Il reperto più antico rinvenuto a Taranto, con una testa maschile a rilievo, si conserva a Trieste (620-600 a.C.). Tale dato archeologico può indurre a ritenere maggiormente diffusa nell’ambito dell’edilizia tarantina la soluzione decorativa con antefisse; tuttavia questo squilibrio può essere spiegato anche con la maggiore difficoltà nel riconoscere in fase di scavo gli altri rivestimenti architettonici, motivo per il quale sono stati documentati e recuperati in misura minore nel corso dei decenni passati. In ogni modo, le dimensioni delle varie tipologie di terrecotte scoperte a Taranto suggeriscono di ricondurre il loro utilizzo in piccole costruzioni, come tempietti funerari eretti a segnacolo sopra le tombe, oppure all'edilizia abitativa privata.
Si diffondono rappresentazioni di Artemis-Bendis e dei personaggi del corteo dionisiaco (Pan, Menadi, Sileni), mentre il profilo diviene più slanciato, ad arco ogivale. Le antefisse con teste sileniche, già note in età arcaica, assumono ora vivaci aspetti espressivi, desunti dal repertorio delle coeve maschere del teatro comico. Appartengono a questo tipo due reperti, simili nell’impostazione con naso largo e schiacciato, fronte calva e bocca aperta sghignazzante, uno conservato al Museo di Taranto, l’altro confluito nelle collezioni del Museum of Fine Arts di Boston. Non molto diffuse sono le kalyptéres anthemotói, antefisse decorate con rilievi naturalistici (palmette, germogli), attestate già in età arcaica; mentre l'utilizzo di acroteri a disco ("antefisse di colmo"), posti a chiusura del coppo alla sommità del frontone, è attualmente documentato a Taranto da un solo reperto frammentario, datato alla metà del VI secolo a.C. |
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