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[sommario] Argenti tarantini nelle collezioni dei musei italiani e stranieri - La "Coppa Mayer" - Il Rhyton d’argento del Museo di Trieste - La "Tomba della Sacerdotessa di Taranto" |
Argenti tarantini nelle collezioni dei musei italiani e stranieri Dal IV al III sec a.C., accanto alla lavorazione di ornamenti in oro, è fiorente a Taranto anche la produzione di vasellame ed oggetti in argento, come documentano diversi pregevoli rinvenimenti confluiti nelle collezioni di importanti istituzioni museali italiane ed estere.
Sicuramente proveniente da Taranto è invece un emblema in argento dorato conservato al British Museum, forse pertinente in origine alla decorazione interna di una coppa. Sul medaglione, dal diametro di circa nove centimetri, Afrodite seduta su una roccia volge lo sguardo verso Eros raffigurato nell’atto giocoso di porsi sulla testa un canestro. A sinistra, una fanciulla porge una pianta d'acanto alla quale la dea stacca il fiore che spunta nel mezzo, usato in antico nella preparazione dei prodotti cosmetici. La professoressa Bonivento Pupino ha dedicato al reperto uno studio analitico, riconoscendo nella figura femminile centrale il ritratto divinizzato della regina tolemaica Arsinoe II, assimilata ad Afrodite. La tartaruga sulla quale poggia la mano sinistra è infatti attributo della dea nell'epiteto di Urania, protettrice dell'amore sacro. L'archeologa fornisce inoltre una diversa interpretazione del bastone con fusto scanalato posto all'estrema sinistra, nel quale riconosce uno scettro, simbolo di regalità, in luogo di un tirso (il bastone attributo di Dioniso), come in precedenza ipotizzato. Sulla base di questi ed altri elementi la studiosa considera il medaglione pertinente ad una teca portacosmetici, che assegna a fabbriche di Alessandria d'Egitto. Sia l’emblema che le argenterie al Metropolitan sono state datate genericamente al III sec a.C. Tuttavia il più antico esempio di una produzione toreutica tarantina risale alla fine del V – inizi del IV sec a.C., ed è rappresentato da un kantharos in argento rinvenuto a Roscigno (Salerno), decorato con una coppia di applique a testa di Sileno su ciascuno dei due attacchi superiori delle anse e da un emblema con una Amazzone dal mantello svolazzante applicato sul fondo interno. Le officine di orafi e di argentieri tarantini realizzano opere che, su commissione delle locali aristocrazie, raggiungono i mercati dell'intera penisola. Ad esempio, si è ipotizzata la produzione in una bottega di Taranto per un gruppo di oggetti in argento dorato rinvenuto in una tomba scavata in una necropoli di Volsinii Novi (località Poggio Sala, nei pressi di Bolsena), e conservato al Metropolitan di New York. Si tratta di un amphoriskos (piccola anfora per unguenti), una pisside ed uno strigile datati agli inizi del III secolo a.C., ognuno caratterizzato dalla presenza dell'iscrizione in caratteri etruschi AMIOYM ("suthina" - "che appartiene alla tomba"), resa tramite lettere punteggiate. Ancora di provenienza tarantina era una coppa argentea trafugata dal Museo di Bari nel 1923, così come un rhyton ora conservato al Museo di Trieste, quest’ultimo recentemente attribuito a fabbriche del Ponto Eusino (vedi articoli in questa pagina).
Del gruppo, probabile tesoro di un santuario, facevano parte due coppe, un bruciaprofumi, un kantharos ed una pisside. Quest’ultima presentava il coperchio ornato nella parte interna da una raffinata decorazione vegetale e nella parte esterna da una scena mitologica con Apollo, Zeus ed Artemide nell’atto di porgere una corona. Il lato con la scena figurata riportava la firma del toreuta Nikon. Le coppe erano invece entrambe decorate nel tondo interno dal medesimo soggetto, il bacio fra Dioniso ed Arianna. Il complesso, di eccezionale livello artistico, è stato datato alla seconda metà del III secolo a.C., ed attribuito ad officine tarantine o di Alessandria d'Egitto. La notizia del prezioso ritrovamento raggiunse gli ambienti del Ministero poco tempo dopo la scoperta; lo Stato propose l’acquisto dei reperti per la somma di ventimila lire ma Cacace, giudicata insufficiente la cifra, vendette illegalmente i vasi ad un antiquario napoletano per la considerevole somma di centoquattromila lire. Questi li cedette alla collezione privata del banchiere Edmond de Rothschild, il quale a sua volta li donò al Museo del Louvre. Tuttavia pare che dal museo parigino gli “Argenti Cacace” siano poi andati dispersi, non esistono infatti foto recenti che li ritraggano. L’unico frammento superstite del gruppo è il piede a forma di Arpia che costituiva, assieme ad altri due pezzi identici, il sostegno della pisside. È conservato al Museo Archeologico di Bari. |
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Eccezionale coppa in argento dorato, datata alla fine del IV secolo a.C., che si rinvenne nel maggio del 1895 nella zona dell’attuale Via Principe Amedeo, durante l’esecuzione di lavori edili in proprietà Cacace (v.sopra). Il prezioso vaso, sottratto ai proprietari del suolo dall’autore della casuale scoperta, venne presentato al Museo Provinciale di Bari che nella persona dell’allora direttore Massimiliano Mayer ne propose l’acquisto alla Commissione Provinciale di Antichità. L'archeologo tedesco dedicò alla coppa tarantina una pubblicazione edita nel 1910, che rese famoso il reperto nella letteratura scientifica appunto come “Coppa Mayer”. Purtroppo l’opera, di eccezionale fattura e molto ben conservata, fu trafugata dal Museo di Bari nel 1923. La monografia di Mayer, integrata da una ricca documentazione fotografica, è naturalmente punto di partenza imprescindibile per la descrizione del reperto oggi disperso. Il restauro del vaso, interessato da diffuse incrostazioni di cloruro di argento, fu curato dallo stesso studioso tramite diversi bagni di ammoniaca diluita. Tali depositi erano più vistosi nella parte concava della vasca: fatto probabilmente riconducibile alla posizione orizzontale con la quale la coppa era stata deposta, che favoriva appunto il ristagno nel lato interno dell’acqua confluita nel giacimento archeologico.
Nella parte interna il vaso presentava un rilievo figurato circondato da sedici maschere teatrali, tragiche e comiche, che si alternavano alla parte concava degli ovoli. Di queste se ne rinvennero quattordici, due andarono perdute forse proprio nel momento in cui il vaso venne estratto dal terreno: operazione che probabilmente comportò la rottura di parte dell’orlo esterno. A tale deduzione vi giunse Massimiliano Mayer, in considerazione del fatto che il margine della frattura presentava un colore ancora piuttosto acceso, indice di come l’evento distruttivo fosse accaduto solo recentemente. Secondo la studiosa americana Barbara Kreutz, il motivo delle teste disposte a raggiera attorno all’emblema della coppa tarantina rappresenterebbe in forma simbolica le sedici divisioni direzionali dell'orizzonte. Nel tondo centrale, definito da un cordoncino intrecciato (flechtband) era raffigurata una donna, nuda nella metà superiore del corpo, verso cui si tendeva un giovane nudo con una clamide attorno al braccio sinistro, alle cui spalle era un arco. Fra i due giovani, un grosso cane da caccia, accarezzato dalla figura maschile con la mano destra.
Le dorature, eseguite mediante martellatura, erano applicate sui fiori degli elementi vegetali, nonché su tutte le parti “non carnose” dei vari personaggi ed animali rappresentati (corna, barba, armi, ecc.). Dibattuta è la questione circa il possibile legame fra il rinvenimento della coppa Mayer e quello, avvenuto l’anno seguente (1896) degli “argenti Cacace”. Secondo una recente ipotesi di lavoro (Mertens-Horn), tali oggetti in metallo prezioso, scoperti a pochi metri di distanza, erano pertinenti in origine ad una stessa area di culto, dedicata ad Afrodite, che doveva sorgere in quella zona dell’abitato antico. Particolarmente suggestiva è inoltre la possibilità, formulata dalla stessa studiosa, che proprio in quel probabile santuario fosse collocata la celebre statua della “Dea in trono” ora a Berlino, rinvenuta anch’essa nelle vicinanze ed interpretata come Persefone o, appunto, Afrodite. |
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Il Rhyton d’argento del Museo di Trieste Nel dicembre del 1889 un gruppo di reperti provenienti da Taranto confluì nelle collezioni dei Civici Musei di Arte e Storia di Trieste. Crocevia del commercio antiquario fra ottocento e novecento, la città giuliana custodisce uno dei più importanti complessi di antichità tarantine, con circa duemila testimonianze archeologiche.
L’oinochòe, di probabile produzione tarantina (fine V – inizi IV sec a.C.), è realizzata a fusione ed ornata da due grifi e da girali vegetali di edera a rilievo. Il rhyton, della lunghezza di 19 cm, è reso a sbalzo con dorature e finiture a bulino ed è configurato a testa di cerbiatto. Il realismo naturalistico con il quale è modellato l’animale ne fa un vero capolavoro dell’arte toreutica greca di fine V – inizi IV sec a.C. I fori in corrispondenza delle cavità orbitali erano funzionali all’inserimento di pietre preziose per la resa degli occhi, ora perdute; le orecchie sono fissate tramite chiodi. Elementi decorativi sono incisi sulla testa del cucciolo: un ricciolo al centro della fronte e due stelle in corrispondenza delle corna appena accennate.
La particolare devozione ateniese nei confronti di Borea si fa risalire all'epoca della seconda spedizione persiana, quando una tempesta provocò l'affondamento presso il Capo Artemisio di parte dell'enorme flotta di Serse (480 a.C.), costituita secondo Erodoto (VII 142) da oltre 1400 triremi.
Considerato fino a pochi anni fa come uno dei più antichi esempi dell’arte toreutica tarantina, il vaso conservato a Trieste è stato recentemente ricondotto, sulla base di notazioni tecnico – stilistiche e morfologiche, a fabbriche da localizzarsi in una delle colonie fondate dai greci sulle coste del Mar Nero (M. Pfrommer). Tale attribuzione resta però dubbia: le palmette contrapposte che decorano l'attacco superiore ed inferiore dell'ansa ritornano simili in molti vasi della Magna Grecia, mentre non sembrano essere documentate in nessun esemplare noto dall'Asia Minore. Al contrario, la resa arcaica degli occhi sul profilo di Atena e di Eretteo è differente da quella, più naturalistica, che appare sulle coeve monete di Eraclea, Sibari e Thurii, e trova riscontro in alcuni tetradrammi ateniesi della fine del V secolo a.C. (E. Simon). L’importanza del reperto conservato a Trieste risiede anche nel fatto che esso costituisce la più antica attestazione documentata dell’utilizzo della tecnica decorativa del niello, già nota all’epoca nelle botteghe orafe del Ponto Eusino. Il niello è una sostanza a base di solfuri metallici utilizzata per riempire i solchi delle incisioni; sul rhyton tarantino compare a sottolineare in nero il contorno di occhi, naso e bocca della testa del cerbiatto. |
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La "Tomba della Sacerdotessa di Taranto" Nel 1872 il British Museum acquistò da Alessandro Castellani, noto gioielliere e collezionista romano, tre reperti di oreficeria greca di età ellenistica, datati al 350-320 a.C. : un anello con castone ovale rialzato, una collana a rosette ed un eccezionale scettro in lamina d'oro.
L'attribuzione del corredo ad una sacerdotessa si spiega con la presenza al suo interno di uno scettro in oro, reperto di grande importanza non solo per l'eccezionale fattura, ma anche perché costituisce una delle rarissime attestazioni di questo tipo di oggetti preziosi nell'ambito dell'oreficeria greca. Si tratta infatti di opere che esulano dal complesso degli ornamenti femminili; il loro significato rimanda piuttosto alle necessità di rappresentazione di un preciso ruolo sociale e del potere, politico o religioso, che ne derivava.
Sulla base del confronto stilistico con questo reperto si è ipotizzato che lo splendido globo in cristallo di rocca ed oro conservato nel Museo di Taranto, altrimenti interpretato come pendente, possa essere in realtà la parte terminale di un oggetto simile andato perduto. L'anello Castellani è decorato a rilievo con una figura femminile seduta e vestita con un lungo chitone, che sembra reggere con la mano sinistra proprio uno scettro.
Il reperto è stato di recente sottoposto ad uno studio analitico che ha reso possibile individuare e rimuovere alcuni elementi di restauro (una rosetta, una testa grande, otto grani sferici ed i due terminali conici), fatti eseguire nel XIX secolo probabilmente dallo stesso Castellani. Accanto al collezionismo, la famiglia romana fu infatti impegnata anche nella produzione orafa, con una celebre bottega che si specializzò nella creazione di gioielli "archeologici", fini opere che in modo originale riprendevano tecniche e modelli dell'oreficeria antica.
L'archeologo britannico, sulla base di notazioni tecnico-stilistiche, ha ricondotto i gioielli del gruppo ad uno stesso orafo, che avrebbe realizzato anche quelli di un famoso corredo trovato in una tomba di Crispiano (TA), costituito da un diadema con ricco ornato floreale ed una coppia di orecchini a disco con il pendente centrale a forma di testa femminile. L'artista, cui è stato dato il nome convenzionale di "Maestro di Crispiano", sarebbe un orafo immigrato a Taranto da qualche località greco-orientale, ed apparterrebbe alla prima generazione di artigiani impegnati nella lavorazione dell'oro operante in città. Occorre tuttavia sottolineare che studi di questo genere, sebbene diffusi nell'ambito della ceramica figurata, hanno una importanza più limitata nel campo dell'oreficeria per il numero estremamente esiguo di reperti che è possibile prendere in esame e confrontare. |
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